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Una bella storia è come un coltello affilato

Una bella storia è come un coltello affilato

“A good story is like a fit knife”, tradotto: Una bella storia è come un coltello affilato. Anna Luca Poloni recita questa frase all’inizio e alla fine della sua produzione “Orlando Trip“, che ha presentato in anteprima in Austria insieme a Christian Mair al festival “Europa in Szene” incentrato su “Sea Change – l’arte della trasformazione” presso il Kasematten di Wiener Neustadt.

Lo spettacolo cinematico-musicale, prodotto sotto l’etichetta “Fox on ice”, si rifà alla tradizione dei “concept album” con 12 canzoni. Con il suo album “Frank Sinatra sings for only the lonely“, Frank Sinatra è considerato il capostipite di questo genere, in cui i singoli titoli si riferiscono l’uno all’altro e quindi seguono un certo “concetto”.

“Orlando Trip” si riferisce al famoso libro di Virginia Woolf “Orlando” in cui si racconta la trasformazione di un cavaliere medievale in una donna. Il fatto che questa trasformazione avvenga nell’arco di 400 anni sottolinea ulteriormente la fantastica costruzione di idee della storia. L’originale ha ispirato e continua a ispirare molti artisti che riprendono il materiale e aggiungono le loro interpretazioni. Ciò che difficilmente si sa, anche tra i fanatici della letteratura, è il fatto che Virginia Woolf avesse un modello per il suo testo. “Orlando furioso” di Ludovico Ariosto del XVI secolo. È interessante notare che proprio nel nostro tempo la storia si sta presentando sempre più spesso in modi diversi. Diversi adattamenti cinematografici, un’opera di Olga Neuwirth, adattamenti di radiodrammi, spettacoli di danza, ma anche quelli nello spazio pubblico, come il progetto Orlando a Vienna, rendono chiaro che il materiale offre ancora sufficienti impulsi per affrontarlo in modo originale.

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Orlando-Trip (Foto: Ludwig Drahosch)

Christian Mair e Anna Luca Poloni alias Anna Maria Krassnigg lo fanno a modo loro, con un alto valore di riconoscimento. Il materiale cinematografico, registrato da Christian Mair, si intreccia con i testi di Anna Luca Poloni, che sono cantati da lei, ma in parte anche recitati in stile parlato. Ci si stupisce di quanto la coppia di artisti sia poliglotta in questa produzione. I testi sono in gran parte scritti in poesia inglese, un’impresa che di solito viene affrontata solo da artisti letterari la cui lingua madre è l’inglese. Inoltre, ci sono spruzzate di italiano ma anche di francese, che sottolineano il tocco internazionale della produzione.

Non è necessario leggere il materiale in anticipo, eppure “Orlando Trip” riesce a farti venire voglia di prendere il libro della Woolf per leggerlo per la prima volta, ma anche di rileggerlo. Un fatto che si riscontra spesso nelle produzioni di “wortwiege”. Questo dimostra anche che uno dei compiti principali di questo teatro è quello di trasmettere la letteratura. Non importa se si tratta di materiale drammatico o drammatizzato. Sensuale, gioioso, teatralmente realizzabile: questi sono i criteri decisivi per la ricezione e la realizzazione del wortwiege. Da non dimenticare: degni di essere discussi.

Le composizioni di Christian Mair in “Orlando Trip” si muovono tra canzoni liriche morbide, spesso dai toni cupi, e brani rocciosi, ritmati e orecchiabili. Gli interpreti ripercorrono lo sviluppo di Orlando, lo sostengono con immagini attuali provenienti da molti paesi diversi e aprono finestre su mondi da sogno. Il tema principale è la trasformazione fisica, ma non mentale, che Orlando subisce nel sonno senza alcun intervento attivo da parte sua. Si assiste a come, da giovane, scopre i suoi sentimenti e la sua infatuazione per Sasha, che lo abbandona nel momento più importante. Si segue il suo interesse per la letteratura, che continua a sostenere come elisir di lunga vita anche da donna. E ci si meraviglia della resistenza della donna Orlando, che sa come preservare la propria indipendenza nonostante il matrimonio e un figlio.

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Orlando-Trip (Foto: Ludwig Drahosch)

Il carisma androgino di Anna Luca Poloni in questa produzione sostiene la fluidità tra i confini di genere. Tuttavia, nonostante il suo aspetto delicato, si percepisce una forza permanente nella rappresentazione delle parti maschili e femminili che sembra essere indipendente dal genere. Il giovane Orlando si rivolge alla letteratura come una cosa ovvia dopo il suo disastro amoroso nell’emigrazione interiore. Indipendente dal punto di vista economico, non si chiede nemmeno se può e gli è permesso farlo. Ma si può anche empatizzare autenticamente con lo stupore femminile per i giochi tra uomo e donna. Quando Anna Luca Poloni canta “dimmi, Capitano”, si rivolge anche al fascino femminile dell’uniforme. Allo stesso tempo, però, trasmette in ogni momento un’irrevocabile volontà di libertà, che mantiene anche dopo la sua trasformazione in donna.

Christian Mair forma una sorta di roccia nel surf della produzione accanto a lei con la sua chitarra elettrica. Dettando il ritmo, riesce comunque a dare alla sua partner una libertà così giocosa che entrambi appaiono uguali nella percezione del pubblico. Una circostanza che si verifica raramente nel mondo dei concerti, ma che qui funziona perfettamente in modo simbiotico.

“Perché incollarsi? È questa la volontà della natura?” canta Orlando a un certo punto, sollevando la questione della convivenza e del matrimonio come fenomeno socialmente consolidato. A differenza degli attuali dibattiti sul genere, la trasformazione di Orlando è completamente priva di attriti, quasi naturale, al massimo sorprendente. Il merito di questa produzione è quello di mettere in evidenza questa possibilità pacifista, seppur ipotetica.

Nell’ambito dell’iniziativa “Sea Change“, “Orlando Trip” è stato e viene proiettato in molti paesi europei. Sarebbe un piacere essere presente a ogni singola rappresentazione all’estero per poter seguire le diverse reazioni del pubblico. Alla prima nelle casematte di Wiener Neustadt, “Fox on ice” è stato applaudito freneticamente.

Ci sarà un’altra rappresentazione il 23.9.

Questo articolo è stato tradotto automaticamente da deepl.com

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Julius Bürger – espulso e riscoperto I Il ritorno di un compositore viennese

Julius Bürger – espulso e riscoperto I Il ritorno di un compositore viennese

La RSO, diretta da Gottfried Rabl, ha eseguito la prima austriaca di opere di Julius Bürger (1897-1995) nella grande sala di trasmissione della ORF RadioKulturhaus il 18 agosto 2023. E questo 18 anni dopo che il compositore ebreo è morto a New York all’età di 98 anni.

Portrait Buerger vor Klavier Brian Coats

Julius Bürger (foto: Brian Coats)

Il fatto che i brani siano stati eseguiti è stato possibile grazie agli ingegnosi sforzi di Ronald S. Pohl, un avvocato immobiliare di New York. Nel 1989 era stato assunto da Bürger per amministrare il patrimonio della moglie Rose, morta poco prima, e per destinare la maggior parte del denaro a giovani musicisti israeliani. Non sapendo ancora che Julius Bürger aveva al suo attivo una notevole opera compositiva, Pohl gli chiese se, a causa della sua età avanzata, non volesse occuparsi del suo patrimonio in tempo utile, il che si rivelò un colpo di fortuna. Bürger, nato e cresciuto a Vienna, si era trasferito a Berlino da giovane con i suoi compagni di studio e il suo insegnante di composizione Franz Schreker e in seguito aveva fatto il pendolare tra Londra, Parigi, Berlino e Vienna. L’invasione dell’Austria da parte di Hitler, tuttavia, lo allarmò a tal punto che riuscì a emigrare in America con sua moglie in tempo. Lì ottenne la cittadinanza americana, lavorò al Metropolitan Opera, ma anche per stazioni radiofoniche e televisive come direttore d’orchestra, arrangiatore e compositore su commissione, senza tuttavia abbandonare completamente il suo lavoro compositivo indipendente.

Fortunatamente, Bürger aveva trovato in Pohl un uomo d’azione. Egli fece di tutto per esaudire il desiderio del suo cliente di riascoltare il suo Concerto per violoncello del 1932, che era stato eseguito per la prima volta nel 1952 e non era più stato ascoltato dal 1991. Gli sforzi di Pohl ebbero successo. Dopo le esecuzioni negli Stati Uniti, il concerto fu suonato anche in Israele da quei musicisti che avevano ricevuto una borsa di studio da Rose Bürger. Solo dopo aver preso contatto con Gerold Gruber, il direttore del Centro Esilarte per la Musica Perseguitata presso il Mdw, e aver portato a Vienna il patrimonio musicale di Julius Bürger, è stato possibile eseguire un concerto delle sue opere anche qui. Se Pohl non avesse incontrato il compositore, si può supporre con grande certezza che le sue opere, raccolte in un piccolo mobile, sarebbero state eliminate dopo la sua morte, quando lasciò il suo appartamento.

La RSO Vienna suona Julius Bürger.

Foto: Benjamin Pieber – Herzog Media

Adagio per orchestra d’archi

La gamma di opere ascoltate a Vienna era ricca. L’apertura è stata affidata a un Adagio per orchestra d’archi del 1978, l’unica opera mai eseguita in Austria. Scorrendo dolcemente, si oscurava di nuovo e di nuovo brevemente per rivelare qualcosa di più drammatico. In alcuni punti, i violini bassi spingono letteralmente gli archi in momenti di tensione, ma vengono sempre superati. Alla fine, riescono a lasciarsi alle spalle il selvaggio, il male, il quasi indicibile, che si fa sentire ancora e ancora, e a lasciare che l’opera si concluda con una tenera eufonia.

Un’ottima scelta per la parte solista del concerto per violoncello, che è stata eseguita successivamente, è stata fatta con Anna Litvinenko. Impressionanti sono stati non solo i passaggi tecnicamente difficili, padroneggiati con bravura, ma soprattutto l’intimità e la sensibilità del suo assolo nell’ultimo movimento. La tecnica è solo una delle componenti di un’esibizione di successo, ma il riempimento dell’opera con l’anima fa la differenza che Litvinenko è riuscita a mostrare al pubblico.

Dopo una tranquilla introduzione, i fiati formano e rilasciano un ritmo pulsante che l’orchestra e il violoncello riprendono. Presto l’azione musicale diventa leggera e danzante e si sviluppa in un lento flusso in cui le pulsazioni ritmiche si ripetono. Ancora e ancora, il piccolo tema, che dura appena 3 battute, appare in tutta l’orchestra. Bürger lascia che il movimento si concluda solo con i fiati, supportati dal violoncello.

In seguito, il compositore dedicò il secondo movimento a sua madre, uccisa dai nazisti durante la marcia verso Auschwitz. Subito all’inizio, viene intonata una lunga e trascinante marcia e il tema del violoncello viene presto ripreso dall’oboe. Gli archi entrano con eleganza e vengono portati dallo strumento solista, che continua il tema. Il ductus trascinante si trasforma gradualmente in un luccichio generale e in una transizione del tema in uno scenario più luminoso con l’accompagnamento dell’arpa. L’atteggiamento rilassante e dolce non dura a lungo; presto il suono si annebbia di nuovo. Subisce un brusco agglomerato e si presenta con una lunga sequenza di fiati con disarmonie che risvegliano l’orchestra e la animano verso un evento selvaggio e cupo. Ora il violoncello ottiene un assolo che può essere descritto come privo di illusioni. Non c’è traccia di quel passaggio calmo e vitale con l’accompagnamento dell’arpa; piuttosto, sembra che il violoncello si sia arreso alle voci della violenza selvaggia. Logicamente, a questo segue un finale in cui l’orchestra, come all’inizio, riproduce la marcia trascinante. Conoscendo il destino della madre di Bürger, si può intuire quale ultimo momento di vita abbia catturato musicalmente.

Nel rapido terzo movimento, il violoncello reagisce in modo quasi cameristico ai singoli assoli strumentali. Ancora e ancora, passaggi tranquilli, spesso sostenuti dagli archi all’unisono, si contrappongono a quelli vivaci ascoltati in precedenza, che poi riprendono velocità con l’aiuto dei fiati in interazione con il violoncello. Il finale è un assolo di violoncello con una bella colorazione dinamica differenziata, seguito da un furioso evento finale di fiati e timpani. L’orchestra e il solista hanno giustamente ricevuto lunghi applausi per la loro performance.

Canzoni con accompagnamento sinfonico

Le seguenti due canzoni con accompagnamento sinfonico sono state interpretate da Matija Meić. “Legende” su testo di Christian Morgenstern e “Stille der Nacht” su testo di Gottfried Keller hanno permesso di fare paragoni musicali con Gustav Mahler. Quasi ogni battuta, ogni stato d’animo, ogni descrizione di uno stato del paesaggio, dell’anima o dell’azione riceve la sua espressione musicale nell’opera di Bürger. Sia che Gesù inizi a danzare inaspettatamente con una giovane donna prima di entrare nel Giardino del Getsemani e che questi passi esuberanti diventino udibili, sia che le onde del mare in Gottfried Keller scatenino ondate musicali nel corpo del suono, la musica e le parole si sostengono a vicenda in modo artistico. Il baritono di Meić suonava pieno, caldo e molto maturo, senza tuttavia mancare di una chiara enunciazione. È riuscito con facilità a lasciare l’ampio supporto sinfonico, una sfida per il cantante in queste opere, come tale e a contribuire vocalmente come uno strumento solista.

Entrambi i brani possono essere caratterizzati come piccoli poemi sinfonici, ma dotati di una forza epica che si avvale di un ampio strumentario e che li rende straordinariamente emozionanti. Ci piacerebbe ascoltarne di più.

La RSO Vienna suona Julius Bürger. Nella foto il baritono Matija Meić

Foto: Benjamin Pieber – Herzog Media

“Sinfonia Orientale”

Il concerto si è concluso con la “Sinfonia orientale” del 1931.
In 3 movimenti, si apre con un tema brillante dei fiati, a cui rispondono gli archi. Vengono evocati i ricordi di Gershwin, che aveva un anno in più, soprattutto attraverso i ritmi fortemente accentuati, che cambiano frequentemente. Come nelle canzoni precedenti, è sorprendente che Bürger mantenga l’intero strumentario orchestrale quasi costantemente in movimento. Non c’è quasi mai un passaggio in cui i musicisti non vengano messi alla prova allo stesso tempo, il che si rivela immensamente affascinante. I piatti, i timpani e la batteria danno il tono predominante, così come i fiati, e permettono al movimento di essere vissuto come un inno e progressivo.

Il secondo movimento inizia con l’oboe, ampiamente supportato dall’orchestra. I violini e i violoncelli rispondono in modo tale che l’intero corpo sonoro si riempie di un flusso e si può facilmente immaginare un paesaggio ampio e aperto. Ancora una volta è l’arpa che conduce al clarinetto, al fagotto e agli archi, oltre che ai legni morbidi. È questo vagare tematico strumentale e allo stesso tempo la continuazione dello stesso che rende questo movimento così interessante. Il ductus tranquillo viene mantenuto e anche la fine suona di conseguenza.

Come potrebbe essere altrimenti, il movimento finale inizia in modo furioso per tutta l’orchestra con una corsa sfrenata. Trombe e tamburi danno il ritmo veloce, che si calma solo con l’arpa e l’oboe e il tema cantato dagli archi. Ora sono i flauti a completare la descrizione del paesaggio. Come se seguissero un fiume con piccoli vortici d’acqua, i violini, sostenuti dal clarinetto, continuano in modo vivace, passando il testimone ai flauti. Con un’ultima, massiccia entrata orchestrale, il tema, presentato ancora una volta, conclude la bellissima opera.

Le caratteristiche della musica di Bürger sono inequivocabili e possono essere enunciate chiaramente. Come compositore, si colloca esteticamente tra il XIX e il XX secolo, da cui ha tratto non solo il coraggio di sfumare il suono, ma anche ritmi fino ad allora insoliti e una strumentazione nuova. Tuttavia, la sua tecnica compositiva è sempre chiaramente comprensibile, le strutture sono facilmente riconoscibili e – questo è ciò che distingue in particolare le opere sinfoniche di Bürger – affascina con una ricchezza musicale di colore per eccellenza.

L’Austria, in particolare Vienna, non ha fatto ammenda con questo concerto. Non c’è nulla di simile. La dichiarazione che è stata fatta, tuttavia, è chiara ed era più che necessaria. Prendersi cura delle proprietà dei compositori espulsi è un imperativo assoluto del momento. Il lavoro del Centro Exilarte del Mdw dovrebbe essere portato maggiormente alla conoscenza del pubblico. Una maggiore consapevolezza di questo capitolo inglorioso della storia della musica può almeno aiutare a garantire che il lavoro degli esiliati non venga consegnato all’oblio. Noi, che abbiamo la fortuna di essere postumi, possiamo partecipare attivamente a questo evento oppure – cosa da non sottovalutare – prendere d’assalto concerti come questo e riempire le sale fino all’ultimo posto. Così facendo, dimostriamo il nostro interesse e diamo alla musica ciò che la rende viva e che merita: la nostra totale attenzione.

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f.l.t.r Prof. Gerold Gruber, Josipa Bainac Hausknecht, Ronald S. Pohl, Gottfried Rabl (Foto: Ronald Pohl)

Janáček in chiesa

Janáček in chiesa

Un’opera lirica della durata di soli tre quarti d’ora deve avere un libretto che riassuma abilmente una trama che si estende per diverse settimane. Tuttavia, il testo di Leoš Janáček per la sua opera ‘Katja Kabanova’ è un po’ stentato. Ciò può essere dovuto al fatto che lui stesso ha ridotto il testo a un condensato basato su un dramma del russo Alexander Nikolayevich Ostrowski (1823 – 1886), che non spiega bene il carattere di molte delle figure presenti. Ostrowski pubblicò il suo dramma con il titolo “Temporale” nel 1859, che è notevole in quanto lo scrittore fece dell’ipocrisia della società nei confronti dell’adulterio e del desiderio sessuale, così come della sottomissione in un sistema familiare, i temi principali della sua opera. Poco conosciuto, è uno dei grandi della letteratura russa ed esercitò una forte influenza su Leone Tolstoj.

Un margine di interpretazione o di confusione?

L’opera ha avuto la sua prima all’Opera di Graz il 18.3.2023, per la quale il team intorno alla regista Anika Rutkofsky ha complicato ulteriormente la trama già un po’ sbandata con alcune idee registiche, cosicché alla fine sorge la domanda: Quanto spazio per l’interpretazione, quanti riferimenti mitologici, quante reinterpretazioni della trama può tollerare un’opera teatrale per rimanere comprensibile? Come risulta, a volte i grandi sforzi non portano sempre all’obiettivo.

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“Katja Kabanova” di Leoš Janáček all’Opera di Graz ( Foto: © Werner Kmetitsch)


Il che porta la critica al nocciolo della questione. Il regista colloca l’azione in un ambiente ecclesiastico, più precisamente all’interno di una chiesa ortodossa di un villaggio. Dikoj, (Wilfried Zelinka), che in Ostrowski e Janáček era ancora identificato come un mercante, diventa il sacerdote della parrocchia, suo nipote Boris, affidato alle sue cure, il suo novizio. (Arnold Rutkofski) L’idea di collocare la storia in un contesto religioso ortodosso spinge il messaggio reale che ogni società è ipocrita e cerca capri espiatori lontano dal pubblico di Graz. Piuttosto, dalla poltrona rossa di peluche dell’opera, questa costellazione tenta di puntare il dito contro un sistema che “non accade così nel nostro Paese”.

Nei primissimi minuti dopo l’apertura del sipario, si assiste a un uomo su una scala che cancella il simbolo della mezzaluna comunista dalla finestra di una chiesa, che in seguito sarà sostituito da un’immagine della Vergine Maria. Questo chiarisce l’orizzonte temporale in cui si svolge il dramma. Siamo apparentemente poco dopo il crollo dell’URSS. Di fronte all’interno della chiesa c’è un muro di piastrelle blu con un ingresso familiare alle piscine. Nel secondo atto, questa piscina sarà ampliata da una piccola stanza che fungerà da scala degli amanti. Il libretto del programma spiega: “Lo spazio scenico di Eleni Konstantatou – una chiesa-piscina – rende visibile il cambiamento di sistema dal punto di vista architettonico: la Chiesa di San Pietro di una parrocchia protestante vicino a Nevsky Prospekt, che è stata trasformata in una piscina durante il comunismo, è l’ispirazione per questo. Oggi, la messa viene celebrata di nuovo sulla piscina coperta, con la pietra dell’altare che ricorda ancora il trampolino”.

La riduzione del messaggio dell’opera teatrale attraverso il quadro religioso ortodosso

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La mendacità della società che Ostrowski esponeva nel suo dramma viene declassata nella versione dell’opera di Graz ad un bigottismo in cui non c’è spazio per una profonda illuminazione religiosa o per la confessione pubblica della propria fallibilità.

Katja Kabanova (Marjukka Tepponen), la giovane moglie di Tikhon (Matthias Koziorowski) è completamente sotto la tutela della dispotica suocera, che non lascia il figlio libero dal suo guinzaglio materno. Quando lui è costretto a lasciare il villaggio per quindici giorni, la moglie inizia a sospettare che ci sia qualcosa di male. Sente che la sua sessualità, finora insoddisfatta, sarà l’occasione per un tradimento matrimoniale. In effetti, ci vogliono solo poche ore prima che si conceda a Boris, il nipote di Dikoj, che fino a quel momento poteva solo adorarla da lontano.

Nella scena in cui i due giovani trovano la loro strada l’uno verso l’altro, il palcoscenico si riempie di tutti i tipi di variazioni di accoppiamento parallelo. In seguito, i costumi mostreranno che i membri della comunità religiosa, che si incrociano costantemente in chiesa, ovviamente conoscono la moralità solo per sentito dire.

L’eccezionale musica di Janáček come ancora di salvezza

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Per quanto contorti possano apparire il libretto e la stessa messa in scena, sono contrastati in modo rilassante dalla musica di Leoš Janáček con la direzione d’orchestra di Roland Kluttig. Accanto a suoni infuocati con venti duri e profondi che annunciano il disastro, ci sono passaggi altamente lirici che ci permettono di immergerci in vari stati d’animo. La stessa Katja Kabanova è dotata di diverse arie meravigliose, che Tepponen interpreta in modo sempre più brillante man mano che la performance procede. Va sottolineata anche la sua interpretazione di questa giovane donna. Ogni emozione, ogni evento che racconta arriva al pubblico in modo autentico. Anche i motivi delle canzoni popolari che il compositore ha assegnato al personaggio di Kudryash (Mario Lerchenberger) sono meravigliosi da ascoltare. Il ruolo di donnaiolo che egli incarna a Graz spinge queste melodie sentite nel cassetto di un seduttore astuto e dal sangue freddo, il che significa che all’inizio possono essere percepite solo come dolci.

Nella tecnica compositiva di Janáček, spesso è possibile comprendere facilmente il suono di singole parole eseguite e di interi movimenti. Ad esempio, il ruolo della suocera di Katja (Iris Vermillion) ha delle interiezioni dure e taglienti, in cui viene pronunciata anche la frase “L’umanità vuole essere ingannata”. D’altra parte, piccole cascate di melodia che ondeggiano su e giù rendono udibili quegli uccelli di cui Katja canta quando pensa a quanto vorrebbe essere libera. Tuttavia, appaiono ancora una volta – poco prima che la giovane donna, emarginata dalla società, scelga il suicidio. Il fatto che anche il marito di Katja, Tichon, alla fine sia vittima della legge del linciaggio sociale, perché si dichiara omosessuale nella versione di Graz, è un’idea registica di Anika Rutkofsky.

Il pot-pourri di costumi di Marie Sturminger rivela una società rurale che non ha nulla dello chic dell’alta società di Mosca. Soltanto l’abito pomposo del Popen e l’abbagliante staffaggio domenicale bianco di Kabanicha, la perfida suocera, trasmettono il fascino e quindi allo stesso tempo la sua pretesa di autorità.

Un eccellente ensemble rende la serata un successo

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Musicalmente, l’ensemble si esibisce in modo estremamente uniforme ad un livello elevato. Non ci sono elementi fuori posto verso il basso, il che è molto positivo per la performance. Oltre a quelli già citati, vanno segnalati Mareike Jankowski nel ruolo della cognata e Martin Fournier nel ruolo di Kuligin. Sono le prestazioni dei cantanti e anche dell’orchestra a rendere la serata all’Opera di Graz un’esperienza. Anche se la messa in scena in sé può essere molto discussa.

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L’evoluzione e la sua eredità fisica

L’evoluzione e la sua eredità fisica

“Ossa e pietre” sono due sostantivi che emanano tutt’altro che calore e sicurezza e che non necessariamente si associano immediatamente l’uno all’altro. Eppure, come sottolinea Claudia Bosse nel suo ultimo lavoro, sono inestricabilmente legati. “Bones and Stones” ha avuto la sua prima mondiale nella Sala G del MuseumsQuartier e – secondo la regista teatrale – presto si sposterà all’aperto. Questo ha senso, perché il tema dello spettacolo è il rapporto dell’uomo con la sua vita interiore fatta di ossa, ma anche con la natura con le sue formazioni pietrose e l’evoluzione dalla formazione della terra fino ai giorni nostri.

Bosse lavora con sei donne di età compresa tra i 24 e i 75 anni, la maggior parte delle quali si muove nuda tra il pubblico durante le due ore e mezza di spettacolo. Ti è consentito passeggiare con l’ensemble o allontanarti da esso. La posizione che assumerai dipende da te e anche da come e quando vorrai cambiarla. Di fatto, però, la maggior parte delle persone segue la direzione, che sfrutta appieno lo spazio e sposta costantemente il focus delle azioni. L’oscurità della sala e l’illuminazione parziale su piccoli “vulcani” segnati da mattoni, così come la prima apparizione delle donne, trasportano in un’epoca molto precedente a quella in cui l’uomo come specie dominava la terra. Dotate di piccole ossa, estensioni delle dita dei piedi e delle mani, le donne si comportano come esseri che hanno ancora molto di animalesco dentro di loro. Rimarranno mute – salvo eccezioni – fino alla fine, ma il loro habitus cambierà in modo permanente.

Dopo che le piccole caviglie sono state riconosciute e scrollate via come fastidiose appendici, ci si imbarca insieme agli artisti nella narrazione dello sviluppo umano, partendo dalla preistoria fino ai giorni nostri. È una narrazione senza parole, con molte tappe. Quelle di facile comprensione e altre che lasciano più spazio all’interpretazione.

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“Bones & Stones” – Claudia Bosse – Tanzqaurtier (Foto: Markus Gradwohl)

Lì masse di corpi sono presentate come una scultura posta sul pavimento, in cui la vita inizia gradualmente ad agitarsi. Vengono evocati i ricordi della coppia di artisti Prince Gholam e le opere di Mette Ingvartsen. La danza e l’estetica delle arti visive sono qui abilmente bilanciate. Poco dopo che le donne si sono separate l’una dall’altra e agiscono ora come individui, vestite con lunghi grembiuli di plastica, i loro volti sorridenti cambiano. L’espulsione dal paradiso, che gli esseri umani potevano ancora sperimentare senza riflettere, con il sorriso sulle labbra, è seguita da un’azione di vero e proprio disprezzo per l’umanità. Coloro che si accasciano a terra vengono trascinati via dalla massa di persone che li circonda per le braccia o per le gambe. Con dei calci, le estremità dei corpi senza vita vengono portate in posizione in modo che possano essere trascinate dietro di loro senza ostacoli. Un testo accompagna l’atto brutale sottolineando che sono le ossa dei corpi a lasciare tracce sul terreno. Questo richiama l’attenzione sulla fisicità delle donne. Ma non su quegli stereotipi a cui di solito si presta attenzione nelle donne: i loro volti, i loro seni, i loro fianchi. Piuttosto, è lo scheletro ad acquisire improvvisamente un forte momento di attrazione. Ciò è rafforzato da una scena in cui la maggior parte del pubblico guarda le donne sedute e in piedi da dietro. Movimenti lenti con allungamenti a destra e a sinistra dal loro centro illustrano la flessibilità della loro colonna vertebrale e mettono abilmente in evidenza la forma delle scapole.

Seguendo la performance, sorgono continuamente domande sulla propria costituzione fisica. Da dove veniamo, cosa portiamo dentro di noi che era già presente migliaia e milioni di anni fa? In che modo questo speciale modo di vedere cambia il modo in cui guardiamo noi stessi, ma anche il modo in cui guardiamo gli altri? Che ruolo abbiamo come parte della natura su questa terra?

I momenti dionisiaci con frammenti sonori e linguistici cantati e parlati dal vivo fanno avanzare di millenni l’immaginaria ruota del tempo, lasciandola a metà tra l’industrializzazione e il mito del Graal di Wagner. Il suono del martellamento sudato su grandi pezzi di pietra si fonde con una potente voce femminile che ripete più volte la frase “la realtà esiste di processi piuttosto che di oggetti materiali”. Lo strato sonoro – prodotto in modo ingegnoso e con molte sfaccettature da Günther Auer fin dall’inizio – diventa più denso e raggiunge proporzioni estatiche, anche grazie all’accompagnamento vocale.

Nel silenzio che segue, il performer più anziano, munito di due borse della spesa, attraversa la stanza e infine ne versa il contenuto – ossa di maiale lucidate a specchio – sul pavimento. Una ad una, le donne ne raccolgono alcune dal piccolo mucchio e le portano in altri punti della stanza per riordinarle. Col tempo, lo sguardo archeologico con cui le ossa vengono messe insieme per formare nuove forme si riversa sul pubblico. Il riferimento al pericolo e alla fragilità della natura non viene omesso. I contenitori di vetro cilindrici contenenti piccole biosfere danno l’impressione di una natura preservata in un futuro distopico. Simboleggiano un residuo di ciò che la terra era un tempo.

Non sarebbe un’opera di Claudia Bosse se non trattasse esplicitamente il mezzo teatrale. E lo fa con un gran finale. In essa evoca l’immagine di una donna addormentata in un luogo creato come un circo, che colloca tutto ciò che si poteva vedere prima nel regno dei sogni.

Con Anna Biczók, Myrthe Bokelmann, Anita Kaya, Carla Rihl, Marcela San Pedro e Christa Zuna-Kratky, l’ensemble era omogeneo ma anche vario. L’intelligente cast tutto al femminile ha permesso di non sollevare questioni sull’identità maschile e femminile, sulla rivalità, sull’attrazione e sulla repulsione, concentrandosi sull’umano in sé. Non vediamo l’ora di continuare nello spazio esterno.

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La creatura di Frankenstein ai piedi della Fortezza di Salisburgo

La creatura di Frankenstein ai piedi della Fortezza di Salisburgo

La Schauspielhaus, che si affaccia sul retro delle Feste Salisburghesi, può quasi essere definita un consiglio da insider. Sebbene sia il più grande teatro indipendente con un ensemble fisso, sorprendentemente non riceve molta attenzione al di fuori della regione. A torto. Perché offre una grande varietà di produzioni, con attualmente 10 prime a stagione. La seconda produzione di questa stagione, “Frankenstein”, è sotto la responsabilità di Jérôme Junod, attuale direttore del teatro e capo drammaturgo. L’anno scorso ha debuttato a teatro con “King Arthur”, la sua nuova versione del materiale storico. A causa di una chiusura, questa straordinaria produzione è stata purtroppo rappresentata solo poche volte. Ora ha scritto la sua versione teatrale dell’opera di Mary Shelley, scritta nel 1816, dandole un’impronta del tutto particolare e inedita.

La storia può essere immaginata metaforicamente come una bambola matrioska russa: come una commedia, in una commedia, in una commedia. Uno dopo l’altro, si sviluppano diversi filoni narrativi che iniziano e finiscono con Roberta Walton. Questa – riccamente dotata di dominanza maschile – è un’avventuriera dell’acqua più pura che vuole raggiungere il Polo Nord con un piccolo equipaggio sulla propria nave. Petra Staduan incarna non solo questo spirito libero femminile, ma anche la condannata Justine nell’ascensore penitente e la ribelle Agatha, che denuncia la disuguaglianza tra ricchi e poveri. Nei panni di Walton, è quasi costantemente presente sul palco e ascolta le storie del giovane Victor Frankenstein.

Quest’ultimo, salvato da lei dall’inferno di ghiaccio nordico, le racconta della sua giovinezza e degli anni di studio all’università di Ingolstadt sotto il dominio di due professori scorbutici. Questi lo sostennero fino al sacrificio assoluto nel suo tentativo di trasformare la materia morta in materia viva e di creare un essere umano artificiale. Antony Connor e Olaf Salzer hanno le risate dalla loro parte in questi ruoli deliziosamente creati. Dimostrano anche il loro talento comico come marinai e passano con altrettanta abilità ai personaggi seri del padre di Frankenstein e di un rivoluzionario cieco.

Wolfgang Kandler incarna il giovane scienziato curioso che ben presto deve rendersi conto della disgrazia che ha portato nella vita sua e della sua famiglia con la creazione della sua “creatura”. Magdalena Oettl nel ruolo di Elisabeth, la sua fidanzata, fa da cornice alla narrazione così come un nuovo personaggio introdotto da Junod, Margaret Saville, una giornalista mondana a cui viene permesso di vivere un sorprendente sviluppo caratteriale. Il personaggio principale di Paul Andre Worms, Henry, amico d’infanzia di Victor Frankenstein, è il suo completo opposto non solo in termini di struttura del personaggio ma anche visivamente. Allegro e amante del divertimento, disponibile e aperto, viene tuttavia ucciso dal mostro di Frankenstein per sete di vendetta.

Tranne che nell’ultima scena, quest’ultimo appare in pantaloni neri e aderenti con un grande maglione nero con cappuccio, in modo tale da non riuscire a distinguere il suo volto. (Costumi Antoaneta Stereva) Hussan Nimr, nel ruolo della creatura di Frankenstein, è perennemente in movimento, con una voce cupa e minacciosa, e rende chiare le sue origini innaturali attraverso i suoi movimenti animaleschi. Si muove a quattro zampe, si arrampica agilmente sulle impalcature e di solito sta con la testa china mentre cerca di raccontare la sua storia. L’ambivalenza di questo personaggio e, soprattutto, il riconoscimento del motivo per cui lui stesso è diventato un mostro, sono molto toccanti e danno alla storia dello Schauspielhaus di Salisburgo una colorazione tutta sua. Bernhard Eder accompagna musicalmente l’azione dal vivo, sia con la voce che con la chitarra elettrica e l’elettronica, regalando così ulteriori momenti emotivi.

L’interpretazione di Junod di “Frankenstein” non si basa su effetti horror e sulla generazione di pelle d’oca. Invece, colpisce per il suo psicogramma finemente realizzato di un outsider il cui più grande difetto è la sua solitudine, che cerca di sublimare attraverso il sentimento di vendetta, diventando così un assassino di massa. Una serata teatrale di successo in un autunno in cui la storia del mondo purtroppo pullula di mostri.

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Perché questo Shakespeare è così sconosciuto?

Perché questo Shakespeare è così sconosciuto?

Quando ci viene in mente il nome di Shakespeare, la maggior parte di noi probabilmente pensa ai drammi reali come Lear, Macbeth o Amleto. Ma per trovare qualcuno che abbia visto Coriolano, bisogna cercare a lungo. La compagnia teatrale “wortwiege” ha appena rimediato a questo problema con il suo festival “Europa in Szene”. La creatrice teatrale e docente di regia presso il Seminario Max Reinhardt, Anna Maria Krassnigg, ha invitato due ex studenti del suo corso di regia all’attuale edizione del festival per mostrare i loro progetti finali. Azelia Opak ha scavato a fondo nella sua ricerca e, con un ensemble di attori giovani ma già affermati e due membri del ‘wortwiege’, presenta l’ascesa e la caduta del patrizio romano Coriolano. È l’ultima opera di Shakespeare ed è generalmente considerata matura. La sua diversa autorità interpretativa può forse essere responsabile del fatto che non viene eseguita spesso.

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Coriolano (Foto: Julia Kampichler)

Coriolano, addestrato alla battaglia fin dall’infanzia, si candida alla carica di console romano, spinto dalla madre. Si è sufficientemente guadagnato i meriti per questo; potrebbe mostrare più di 20 cicatrici al popolo, come era consuetudine prima di assumere l’incarico, per dimostrare di essere fedele a Roma. Potrebbe, se non fosse per il suo indomabile orgoglio. È questo orgoglio che alla fine lo fa crollare. Qualche secolo dopo Shakespeare, ci sarà un secondo personaggio chiamato Michael Kohlhaas che sarà altrettanto inflessibile di Coriolano, anche se il motivo è diverso.

Ma fino a questo momento, Opak mostra i personaggi di Shakespeare in tutta la loro differenziazione psicologica: Coriolano (Lukas Haas), l’indomito, che per una volta non rimane fedele ai suoi principi, ma per il resto può essere considerato un uomo testardo per eccellenza. È fantastico il modo in cui Haas riesce a parlare con se stesso fino a raggiungere una furia quasi spaventosa. Sua madre Volumnia (Judith Richter), che, come le madri sportive di oggi, esige tutto da suo figlio per potersi crogiolare nella sua gloria. Menenio Agrippa (Jens Ole Schmieder), un membro della casta elitaria, che sostiene Coriolano con consigli benintenzionati per non mettere in pericolo la propria posizione. Tullo Aufidio (Philipp Dornauer), il perdente multiplo di Coriolano in battaglia, aspetta solo di vendicarsi al momento giusto. Nonostante la sua giovane età, Dornauer imita un combattente dal sangue caldo, ma mette una grande dose di ponderatezza prima di ogni sua azione. Giunio Bruto (Paul Hüttinger), uno dei primi tribuni del popolo, imparò rapidamente come funzionano gli intrighi politici. Sebbene i suoi attributi esterni, come una spessa catena d’argento al collo, indichino la sua vicinanza al popolo, Hüttinger tuttavia infonde al suo tribuno una grande dose di subdolezza e astuzia. Infine, Sicinius Velutus (Uwe Reichwaldt), secondo tribuno del popolo, che, nella regia di Opak, si districa in tutte le situazioni pericolose come un funzionario austriaco-Slavin e ha la simpatia del pubblico dalla sua parte.

Una scenografia estremamente intelligente (Felix Huber) separa il lungo spazio scenico. Una porta rotonda girevole – la parte anteriore in oro scintillante, la parte posteriore dipinta di nero pece – indica se l’azione si svolge a Roma o con il nemico di Roma, i Volsci. Dopo l’ultima battaglia vinta, Coriolano spalma il sangue delle sue mani sul grande specchio nell’abside del palcoscenico, chiarendo che le sue battaglie sono costate più di una sola vita umana.

L’idea di accompagnare la produzione con musica dal vivo non è solo grandiosa, ma ha anche un senso drammaturgico. Boglarka Bako e Marie Schmidt intonano ripetutamente il motivo del Coriolano di Beethoven con leggere variazioni sui loro strumenti ad arco. Questo sottolinea anche quei momenti in cui il patrizio si vede completamente nel suo elemento come leader popolare e governante aristocratico che si arroga il diritto di prendere le sue decisioni senza il popolo, che in realtà considera fastidioso e dispensabile. I due musicisti siedono a destra e a sinistra sul fondo del palcoscenico, in modo da poter essere visti ma senza disturbare la rappresentazione sul palcoscenico limitato.

La produzione non vive solo del fatto che mostra diversi punti di vista su uno Stato di successo e sui rispettivi rappresentanti. La produzione vive anche di momenti forti ed emotivi, come quello in cui la madre di Coriolano si getta in ginocchio davanti a lui e lo implora di avere pietà per Roma. Il modo in cui si aggrappa a lui poco dopo mostra chiaramente il legame fatale tra lei e suo figlio. Judith Richter rimane indelebile nella memoria con questa scena. Ma Jens Ole Schmieder riesce anche a dimostrare cosa sia l’alta recitazione in un’interpretazione quasi senza parole. Il modo in cui spinge le tribune ai lati del palco con brevi scatti denigratori e non lascia che prendano posto al centro entra nella pelle e lo rende profondamente spregevole in questo momento.

Chi è il bene qui e chi è il male qui, in definitiva, non è realmente distinguibile. Come nella vita reale, in questa opera non c’è un vero nero e un vero bianco. Ciò che rimane è la consapevolezza che un tempo la politica era fatta dalle persone, proprio come oggi. Da persone che, da un lato, si trovano dove sono in virtù della loro volontà e, dall’altro, si sono conquistate un posto grazie a reti familiari o politiche, per le quali sono disposte a fare sacrifici personali, ma anche a passare sui cadaveri.

Il fatto che l’opera sembra fatta per le casematte di Wiener Neustadt è un altro punto a favore della produzione. Le altre performance sono incorniciate da colloqui salottieri, ma anche da un nuovo formato. Con i “discorsi”, vengono riproposti i discorsi di personaggi famosi, che di solito si conoscono solo per sentito dire. Un’altra grande idea artistica che getta luce da un’angolazione diversa sul grande campo del ‘potere’, che è in definitiva ciò che riguarda la ‘Szene Europa’ nelle casematte di Wiener Neustadt.

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