“Una imagen interior” del duo teatrale spagnolo El Conde de Torrefiel, presentato nell’ambito del Festival di Vienna al Museumsquartier, è una di quelle rare produzioni del teatro contemporaneo off-mainstream che spinge i critici a chiedersi, come Hans Moser nei panni di un servo, “Come si fa?”. Perché, da qualunque punto di vista la si guardi, non è facile rendere davvero giustizia all’opera.
Il contenuto viene raccontato rapidamente. Durante la visita al Museo di Storia Naturale, segnalata sul palco, il narratore in prima persona si occupa ampiamente della riproduzione di una pittura rupestre preistorica. Il testo che si forma nella testa di chi guarda l’arte è reso visibile al pubblico per mezzo di scritte illuminate in inglese e tedesco. Gli attori in scena erano in parte reclutati tra la popolazione viennese. Nessuno di loro, nemmeno l’ensemble stesso, deve parlare. E non ballano nemmeno. Come figure oniriche, attraversano il palcoscenico in un totale di tre scene, ognuna con un’illuminazione diversa, muovendo di tanto in tanto le labbra.
All’inizio, un grande quadro su plastica, dipinto nel migliore dei modi alla maniera di Jackson Pollock, viene tirato su dal pavimento in modo che sia chiaramente visibile riempiendo il palco. È un sostituto simbolico del manufatto preistorico che diventa il punto di partenza per le riflessioni intrinseche. Dalle linee si può notare che la superficie pittorica è stata ripiegata dopo la stesura del colore per creare una forma speculare. Donne e uomini vi passano davanti o si fermano per osservarlo da vicino. La colonna sonora indica che è stata registrata in una sala grande e riecheggiante, come quelle dei grandi musei del Ring.
Dopo un lungo elenco di contributi filosofici contemporanei sul tema della realtà, della sua percezione e della sua messa in discussione, si passa all’ambiente di un supermercato. Lì, gli acquirenti passeggiano lungo scaffali immaginari e parlano tra loro al massimo quando apparentemente non riescono a trovare un prodotto.
Durante questo defilamento, si sviluppa la consapevolezza che l’uomo può essere riportato alla sua esistenza originaria, al di là della civiltà tecnica, solo lanciando una bomba. Una realizzazione che culminerà in un’idealizzata idea rousseauiana di felicità alla fine dell’opera. Per Tanya Beyeler e Pablo Gisbert, gli ideatori di El Conde de Torrefiel, il ritorno alla natura significa apparentemente il ritorno a un’umanità in cui valga di nuovo la pena di vivere in una comunità felice.
Ma finché questa promessa di salvezza non diventa chiara al pubblico, in un allestimento scenico distopico vengono riprodotte registrazioni sonore ad alto volume con vibrazioni di basso così ritmiche che queste vibrazioni, trasmesse alle gradinate, diventano fisicamente palpabili. Il fragore e lo schianto, il ruggito e il martellamento imitano un momento apocalittico che precede il ritorno della felicità sulla terra. Il tutto è amplificato da un riflettore che abbaglia il pubblico, in modo che nessuno stimolo visivo possa disturbare l’azione del mostro uditivo durante il collage sonoro.
Sono finiti i tempi in cui i consumisti si abbandonavano alla frenesia dello shopping da soli. Se la scena del carrello del supermercato precedente sembrava interminabile, quella post-apocalittica successiva è simile. I sopravvissuti del GAU si riuniscono in un piccolo gruppo per parlare tra loro o per abbandonarsi a movimenti minimi e danzanti, oppure si accampano intorno a un camino artificiale elettrificato. Tutto torna all’inizio, per così dire. Solo un’implicita “danza intorno a un vitello d’oro” – sotto forma di una grande zolla d’oro – indica che, anche dopo un processo di quasi estinzione, i desideri dell’uomo non cambieranno.
Che la fine della produzione si sarebbe conclusa con la pittura di un telone di plastica bianco è stato chiaro fin dal momento in cui è stato steso sul pavimento. Il dripping colorato sulla tela diventa un’esperienza comunitaria in cui le istruzioni vengono impartite con segnali delle mani o l’approvazione viene data con un cenno del capo. Anche il ripiegamento per creare l’effetto specchio che aveva la prima immagine presentata era imperdibile.
Quanto alla parte narrativa di “And imagen interior” – l’immagine dentro.
La produzione ha dato l’impressione che il ricorso alla scatola magica del teatro post-drammatico abbia funzionato solo in misura limitata in questo sviluppo teatrale con un riferimento regionale. C’è stato uno sforzo eccessivo per cercare di comprimere tutti gli ingredienti di successo che compongono un formato di questo tipo. Si è avuta la sensazione che l’approccio fosse quello di un elenco da elaborare, come ad esempio: Partecipazione del pubblico locale – abbiamo; coinvolgimento di una nota istituzione culturale locale – abbiamo; inserimento delle nostre idee in un quadro pseudo-scientifico – abbiamo; confine tra eventi teatrali e performance musicali – abbiamo; irritazione del pubblico (nota: presunta irritazione del pubblico) attraverso il controluce – abbiamo. In tutto questo, però, abbiamo semplicemente dimenticato ciò che fa davvero il buon teatro: trasmettere una storia o delle idee al pubblico in modo tale da toccarlo emotivamente. Conclusione: più cuore e meno testa avrebbero giovato allo spettacolo tanto quanto l’omissione di un’idea banale e infantile di una vita felice insieme in questo mondo, in un presunto stato di natura.
Il fatto che nel volantino per il pubblico non ci sia un testo stampato all’insegna del motto “leggete senza carta!”, ma solo un codice QR dal quale si possono trovare un testo, un ritratto del gruppo e una breve intervista video, si spera sia l’eccezione e non la regola per le future note di programma.
L’articolo è stato tradotto automaticamente con deepl.com.
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